di Marcello Veneziani
Ha ragione Aldo Cazzullo a dire, sul Corriere della sera di ieri, che l’egemonia culturale della destra in rete è assoluta. Anzi nei social l’egemonia culturale, lui dice, è addirittura di “estrema destra”. Sui temi storici, e non solo, sui temi civili, nel linguaggio usato prevale nettamente quell’impronta, che lui stesso definisce “senso comune”. Sono d’accordo, a patto però di aggiungere un paio di cose.
La prima è che l’espressione “egemonia culturale” è impropria, perché quell’opinione diffusa non ha alcun potere, è come la voce che si sparge in piazza mentre a Palazzo si pensa, si dice e si decide in modo opposto. E’ senso comune, non ha egemonia.
La seconda, direttamente connessa alla prima, è che il potere sulla cultura, sulle idee, sulla mentalità corrente è detenuto da una cappa che si oppone al senso comune, alla realtà e all’esperienza storica. Non volete chiamarla egemonia culturale di sinistra, preferite chiamarla “mondo di sopra” rispetto al “mondo di sotto” del sentire comune? Va bene. Volete aggiungere che di sinistra in senso ideologico e classico c’è poco, trattandosi di un intreccio più complesso di interessi, caste, mafie, influencer, agenti e funzionari di potere che decidono orientamenti e direzioni culturali? Va bene, anzi è più preciso così, ma quel predominio esiste. E lo dimostra proprio la divergenza netta e il tono polemico, a volte esagerato, che assume in rete l’opinione avversa, che non si trova riconosciuta. Anzi, la vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni politiche è anche il frutto di quella “ribellione delle masse”, in rete, nei social e nella vita quotidiana, a quel potere assoluto. In che consiste l’egemonia sulla cultura da parte di quella “cappa”?
Consiste nell’orientamento generale impresso ai mass media, alle istituzioni e nelle grandi agenzie pubbliche sui temi sensibili, storici e civili. Consiste nel prevalere di una narrazione con i suoi ingredienti d’obbligo (in tema di storia, società, migranti, sessi e omosessi, emergenze varie) a tutti i livelli: dal cinema al teatro, dalla tv alla pubblicità, dalle accademie ai grandi giornali, dalle istituzioni ai ruoli di potere. Consiste nell’intoccabilità degli assetti preesistenti perché ciò che fu deciso, per esempio, dal Ministro Franceschini fu deciso dal Fato, da Dio, dalla Scienza Infusa; non può essere toccato. Quel che decidono invece i governi e le amministrazioni di destra è sempre arbitrario, deplorevole, illegittimo, schifoso. Guai a chi tocca il direttore del Museo egizio, guai a chi non caccia il direttore del Museo fiorentino, perché nel frattempo si è schierato con la destra. Guai a chi vuol rimuovere il monopolio dell’Anpi nelle scuole, ben sapendo che l’Anpi non è più nemmeno l’associazione che raccoglie i partigiani, nel frattempo deceduti, ma una setta ideologica che esercita con intolleranza il servizio d’ordine nella storia; rispetto a cui anche la storia del fascismo scritta da Renzo De Felice è indegna di entrare nelle scuole.
L’egemonia sulla cultura consiste nelle campagne a cadenza quotidiana contro chi non è allineato (ieri Vannacci, oggi Foa, e domani chissà) con la richiesta seguente di cacciarlo e il relativo effetto intimidatorio esercitato sugli stessi governanti della destra che corrono a schierarsi sotto l’ombrello protettivo della Cappa e a prendere le distanze dal mostro in oggetto. E mille altri sono i tabù, i casi, le denunce, le soffiate che confermano questa dominazione.
Perché il tema culturale è diventato così importante, si sono resi conto che è decisivo, centrale? No, signori, non sopravvalutate gli attori. Il fatto è che la politica non può decidere quasi nulla, è bacchettata da misure, tassi, spread e altre misure, deve accucciarsi e allinearsi a livello internazionale, militare, economico, strategico, altrimenti va a casa, e in fretta. Allora l’unico ambito in cui può dare l’impressione che qualcosa stia cambiando e che loro sono rimasti coerenti e “fedeli” ai valori e ai voleri della gente, è agitare un tema pseudo-ideologico, spostare una casella, intitolare una via, cambiare un profilo, riusare uno slogan. Così la cultura diventa un risarcimento simbolico per sceneggiare le differenze e per non dare l’idea che il paesaggio sia omogeneo e i soggetti intercambiabili.
Ora, posso dar ragione a Cazzullo che ritiene questo ribollire social spesso scomposto e sgangherato, a volte alimentato da dicerie infondate o non rigorosamente verificate. E posso perfino capire che il governo per sopravvivere, per non fare muro contro muro, tenti mediazioni, frenate e rinvii. Non ha strategie lungimiranti, non ha classi dirigenti, così procede a zig zag. E’ comprensibile, poteri cristallizzati da decenni non si cambiano in pochi mesi con pochi ranghi e poche idee.
Ma la sostanza del discorso resta: quando la scena pubblica è dominata da quel senso unico, quando non si riconosce spazio e legittimità a chi esprime, anche ragionando e fondandosi su fonti serie, opinioni diverse da quelle del mainstream, allora è naturale, è fisiologico, che poi esploda in rete, nei social, ossia negli unici spazi non (ancora del tutto) controllati, quella divergenza con quei toni aspri. E che così compressa, così abbandonata alla prateria del web, poi cresca selvatica.
L’unico modo per evitare quella contrapposizione così netta tra senso comune e mainstream calato dall’alto, è riconoscere un fondamento al sentire comune, riconoscere cittadinanza alle idee diverse, purché siano degnamente argomentate. Ma degnamente non vuol dire che debbono coincidere con le opinioni dominanti, ma che restino comunque differenti e divergenti ma in modo serio.
Un diverso ascolto, una diversa apertura verso chi ha opinioni contrarie gioverebbe non solo alla società, svelenirebbe il clima ma riuscirebbe anche a sgonfiare il potenziale di rabbia che poi monta davanti al disprezzo altrui e alla richiesta permanente di censura verso chi dissente. Lo dicevo già anni fa: se volete smontare le post-verità mettete da parte le pre-falsità, ovvero i pregiudizi falsi prefabbricati a senso unico che spacciate sui temi storici, civili, culturali e sociali. Ogni critica preveda anche un’autocritica. Vale per tutti.
Da La Verità