È trascorso ormai oltre un anno da quando Israele ha lanciato la propria risposta agli attacchi della resistenza palestinese del 7 ottobre, dando il via al genocidio della popolazione tutt’ora in corso. I massacri si susseguono senza sosta: l’ultimo è avvenuto poche ore fa, quando le forze dell’esercito israeliano hanno raso al suolo un intero isolato residenziale nel nord della Striscia di Gaza, uccidendo almeno 87 persone. Numeri ormai normalizzati nella narrazione mediatica quotidiana dell’aggressione, ma spaventosi nella loro portata.
Dopo un anno di assedio, a Gaza manca tutto: medicinali, acqua, cibo, vestiti. A complicare ulteriormente la vita delle persone intrappolate in questa striscia di terra e sottoposte a bombardamenti quotidiani sono anche i continui spostamenti imposti dall’esercito israeliano. «Ogni volta che gli israeliani vogliono conquistare terreno, lanciano i volantini dove ci dicono che abbiamo 4 ore per spostarci» ci ha raccontato Sami, residente a Gaza. E mentre gli occhi del mondo sono puntati sull’enclave palestinese, Israele ne ha approfittato per accelerare l’occupazione violenta della Cisgiordania.
A partire da settembre, la guerra si è allargata anche al fronte libanese e minaccia di estendersi anche verso l’Iran. Un’operazione di tale rilievo non potrebbe essere portata a termine impunemente e con un tale successo se Tel Aviv non godesse di alleati preziosi nella comunità internazionale. Uno su tutti: gli Stati Uniti, con i quali condivide obiettivi di ordine geopolitico in Medio Oriente. Gli interessi in gioco sono talmente forti da rendere la politica internazionale cieca di fronte alle prove dei crimini e degli abusi commessi dall’esercito della «più grande democrazia del Medio Oriente» contro i civili palestinesi, tanto sul campo quanto nelle carceri – veri e propri centri di tortura, come documentato dalla ONG israeliana B’Tselem.
Nel nuovo Monthly Report, il mensile di inchiesta e di approfondimento de L’Indipendente, ripercorriamo quanto accaduto durante un anno di aggressione militare, spiegando quali siano gli interessi politici ed economici in gioco e come le istituzioni sovranazionali (l’ONU su tutte) abbiano fallito nell’elaborare una strategia politica efficace per porre fine al massacro della popolazione civile.