(Verità che conosce anche il primo ministro italiano che tace)
“Quest’autunno gli oppositori dell’Ungheria presenteranno di nuovo le loro richieste. Ciò che l’impero di Soros, i burocrati di Bruxelles e i democratici americani vogliono da noi, noi non possiamo e non vogliamo darglielo.
L’amministrazione degli USA continuerà a volerci coinvolgere nella guerra: fornendo armi e dando più soldi all’Ucraina, o almeno permettendo a Bruxelles di dare all’Ucraina i nostri soldi.
Bruxelles vuole che lasciamo entrare i migranti e che costruiamo ghetti per loro, che facciamo propaganda sessuale nelle scuole, che diamo loro potere decisionale in campo economico e che rinunciamo a una politica estera autonoma.
Minacciano che se non facciamo tutto questo, ci metteranno sotto costante pressione, senza fondi da Bruxelles, e – attraverso le casse dell’impero di Soros – pagheranno la sinistra ungherese, gli oppositori interni del governo ungherese.
Cosa possiamo dire di tutto ciò?
In primo luogo, l’Ungheria non fa parte del club dei “Paesi Servitori” che, quando ricevono una chiamata da Bruxelles, rispondono semplicemente: “Sì!”.
In secondo luogo, l’Ungheria non può permettere a nessuno di limitare la propria indipendenza e sovranità”.
parole parole parole…. da tutti governo e opposizione
Incredibile come i media mainstream, il governo Meloni e l’Unione europea stiano vendendo una montagna di fumo sull’accordo dei migranti. Il patto non prevede in nessun punto la lotta all’immigrazione clandestina ne impedisce esplicitamente alle ONG di proseguire con il loro traffico di esseri umani. Non è un caso che Orban non lo abbia votato. Giorgia Meloni non ha ottenuto nulla se non della fuffa propagandistica che non risolve il problema. L’Italia resta invasa dagli immigrati clandestini e la Meloni non fa nulla per proteggere le nostre acque territoriali.
In pratica gli attuali propagandisti di Salvini e Meloni sono stati negli anni passati ad attaccare il PD perché esso non faceva nulla per arrestare il traffico di esseri umani e invocava il fantomatico intervento UE che vuole quel traffico. Adesso che sono loro al governo utilizzano gli stessi falsi argomenti che utilizzava il PD per consentire gli sbarchi di immigrati clandestini. Non ci sono molti dubbi al riguardo. Fdi e Lega sono di gran lunga peggiori del PD.
Pensioni, in arrivo una doppia rivalutazione: la prima tra novembre e dicembre, la seconda a gennaio 2024. Ecco come cambiano gli importi delle pensioni minime, d’invalidità e dell’assegno sociale.
Come anticipato nei giorni scorsi, nuovi aumenti sulle pensioni sono in arrivo nei prossimi mesi. Il primo ci sarà tra novembre e dicembre per merito del conguaglio della rivalutazione del 2023, con il quale sugli importi verrà applicata la differenza dello 0,8% accertata tra il tasso provvisorio e quello definitivo, mentre il secondo è in programma a gennaio 2024tenendo conto dell’andamento dell’inflazione rilevato per il 2023.
Un’operazione che avrà conseguenze su tutte le pensioni, compresi il trattamento minimo e le pensioni d’invalidità civile, come pure per l’assegno sociale.
E dal momento che stiamo parlando di importi molto più bassi, per questi trattamenti la rivalutazione verrà effettuata al 100% del tasso accertato (mentre sopra le 4 volte il trattamento minimo si applicano delle percentuali ridotte).
Va detto che solo per il conguaglio sappiamo per certa la percentuale di rivalutazione, pari appunto allo 0,8%. Per quanto riguarda la rivalutazione in programma a gennaio, invece, bisognerà attendere ancora qualche settimana prima che l’Istat certifichi il tasso d’inflazione medio da applicare sugli assegni. Tuttavia, per il momento possiamo farci un’idea su quanto aumenteranno le pensioni minime, quelle d’invalidità civile e l’assegno socialeguardando alla percentuale di rivalutazione stimata nella Nota di aggiornamento al Def approvata dal Consiglio dei ministri il 27 settembre scorso: un 5,4%, leggermente in discesa rispetto alla percentuale del 5,6% che era stata accertata nel Def.
Come aumentano le pensioni minime
Oggi il trattamento minimo ha un importo pari a 563,74 euro, sul quale poi si applica una rivalutazione straordinaria dell’1,5% che sale al 6,4% per chi ha compiuto i 75 anni.
Con il conguaglio atteso tra novembre e dicembre, quindi, l’importo della pensione minima salirà a 568,24 euro, con un aumento di circa 4 euro. Va ricordato che questo importo decorre da gennaio 2023, per questo in sede di conguaglio verranno riconosciuti anche gli arretrati.
Considerando poi la rivalutazione straordinaria introdotta dalla legge di Bilancio 2023, ne risulterà che per gli under 75 la pensione minima potrà arrivare fino a un massimo di 576,76 euro(rispetto ai 572,74 euro attuali), mentre per chi ha compiuto i 75 anni si sfora il muro dei 600 euro arrivando a 604,61 euro (rispetto ai 599,82 attuali).
A gennaio 2024 poi gli importi cambieranno ancora, grazie a una rivalutazione che dovrebbe essere del 5,4%. L’importo del trattamento minimo salirebbe così di altri 30 euro circa, arrivando a 598,92 euro. A questo importo va aggiunta la rivalutazione straordinaria che nel 2024 salirà al 2,7%, incrementando così l’assegno fino a 615,09 euro. Sarà la legge di Bilancio 2024, invece, a stabilire cosa ne sarà delle pensioni minime per gli over 75, per i quali oggi la rivalutazione al 6,4% non è confermata per il prossimo anno.
Come aumenta l’assegno sociale
L’assegno sociale, prestazione che spetta a 67 anni a coloro che versano in una situazione di bisogno economico, al momento ha un importo pari a 503,27 euro mensili (per tredici mensilità).
Con il conguaglio in programma tra novembre e dicembre ci sarà un incremento di circa 4 euro, con l’importo dell’assegno sociale che salirà a 507,29 euro. E contestualmente ci sarà il pagamento di almeno 10 mensilità arretrate, con un assegno una tantum di circa 40 euro.
A gennaio 2024 anche l’assegno sociale farà un ulteriore balzo in avanti con l’importo che verrà adeguato al maggior costo della vita: nel dettaglio, con una rivalutazione del 5,4% il valore sarebbe pari a 534,68 euro.
👀 Il Presidente ucraino Vladimir Zelensky e il dissidente russo Alexei Navalny sono tra i favoriti per il Premio Nobel per la Pace di quest’anno. Ma, secondo gli esperti, i sostenitori dei diritti delle donne, delle popolazioni indigene o dell’ambiente potrebbero rubare la scena.
🔸Il Comitato norvegese per il Nobel, visti i precedenti, è anche in grado di sorprendere completamente nell’annuncio del 6 ottobre.
🔸Anche se i bookmaker danno Zelensky come candidato principale per unirsi all’illustre lista di premiati, da Nelson Mandela a Martin Luther King, gli specialisti del Nobel ritengono improbabile che il Presidente ucraino venga nominato a causa di essere stato un leader di un Paese in guerra.
Scoperti dalla polizia 400 laboratori, la commissaria agli Affari Interni Johansson: “In Lettonia sequestrati cinque chili, che potrebbero uccidere 2,5 milioni di persone
Il fentanyl, un oppioide sintetico che ha provocato un’ondata di decessi per overdose negli ultimi anni negli Stati Uniti, viene prodotto anche in Europa e c’è il rischio ce possa portare a migliaia di morti anche da noi. L’avvertimento è stato lanciato dalla commissaria europea per gli Affari Interni, Ylva Johansson, che ha ricordato che il problema è soprattutto statunitense, con il Paese che ha avuto oltre 100mila morti, ma ha aggiungendo che non dobbiamo dimenticare che il fentanyl “viene prodotto anche qui in Europa, dove ci sono molti laboratori” illegali e in un anno “la polizia ne ha smantellati 400, strutture in cui si producevano soprattutto metanfetamine ma anche fentanyl”.
Parlando ieri in conferenza stampa a Bruxelles al termine del Consiglio Affari Interni, che ha visto anche la partecipazione dei ministri di 14 Paesi dell’America Latina, con i quali si è parlato soprattutto di lotta al narcotraffico, Johansson ha detto che “dobbiamo essere preparati” al fatto che una emergenza come quella degli Usa “potrebbe accadere anche qui”. La commissaria ha fatto l’esempio di un sequestro avvenuto in Lettonia. “Lì sono state sequestrati cinque chili di fentanyl, che hanno il potenziale di uccidere 2,5 milioni di persone, cioè più della popolazione nazionale”, ha denunciato.
Questo perché questa sostanza, usata originariamente come analgesico, prima di essere resa illegale per gli effetti collaterali che sono stati dimostrati e denunciati, è adesso utilizzata principalmente come droga ed “è cinquanta volte più pericolosa dell’eroina”, e questo significa che potenzialmente ci vorrebbero 250 chili di eroina per avere la stessa pericolosità, ma cinque chili “sono facili da trasportare”, si possono mettere tranquillamente in una borsa, da qui i maggiori rischi per la salute pubblica.
Ieri nel corso del dibattito tv tra candidati repubblicani alle primarie presidenziali degli Usa, l’ex governatrice della South Carolina Nikki Haley ha denunciato che “abbiamo avuto più morti di fentanyl che americani uccisi in Iraq, Vietnam e Afghanistan messi insieme”. E l’affermazione è vera: secondo i dati dei Centers for Disease Control and Prevention, sono 150 mila le persone morte per overdose da psicofarmaci che includono il fentanyl, il farmaco più diffuso. I soldati americani morti in Iraq, Afghanistan e Vietnam sono stati 65.114. Negli Stati Uniti questa droga che si può iniettare o fumare, sta diventando la principale causa di morte per le persone tra i 18 e i 49 anni.
Per fronteggiare la mancanza di oppioidi la criminalità organizzata si sta dedicando sempre più alla produzione e la vendita di droghe sintetiche come il fentanyl, che risulta peraltro più redditizie di altri oppioidi naturali in quanto più potenti: basta quindi meno prodotto per assicurare lo stesso effetto. Gli spacciatori sono soliti inoltre mescolare questo analgesico ad altre droghe, come cocaina, metanfetamine e Mdma. La dipendenza può nascere così in maniera inconsapevole, con consumatori ignari di stare utilizzando questo tipo di sostanza.
Il commercio internazionale si sta contraendo ed è diminuito al tasso più veloce lo scorso mese di luglio. Infatti è sceso del 3,2% rispetto al luglio dell’anno scorso al ritmo più rapido dai primi mesi della pandemia nel 2020 dopo essere diminuito del 2,4% in giugno. Questo calo è sicuramente dovuto in gran parte al forte rallentamento della crescita in Europa e in Cina e in misura minore negli Stati Uniti. Questa spiegazione non è però esaustiva. Il calo del commercio internazionale è anche un primo sintomo delle crescenti tensioni geopolitiche e del cambiamento delle politiche economiche americana ed europea che sono passate dalla globalizzazione alla scelta di privilegiare la ricostruzione della loro base industriale grazie a forti sussidi statali. Infatti questo fenomeno è anche figlio degli anni della COVID, che ha messo in luce la dipendenza delle economie occidentali dalla Cina. La decisione di Washington e di Bruxelles di ridurre questa dipendenza sta comunque provocando effetti non previsti. Il più importante è la formazione di un blocco economico e commerciale formato dalla Cina e da una gran parte dei Paesi del Sud-est asiatico. Infatti i dati svelano che l’export cinese negli Stati Uniti è sceso del 14% dal 2017 al 2022, ma nel frattempo sono esplosi quelli tra la Cina e i Paesi dell’Asia sud orientale e contemporaneamente le esportazioni di questi ultimi verso i Paesi occidentali. Cosa sta succedendo? In pratica per aggirare i dazi imposti da Donald Trump e mai abrogati dall’amministrazione Biden e le altre misure restrittive adottate dagli Stati Uniti una grande parte dell’export cinese fa tappa in Vietnam, Malesia, Indonesia, Tailandia ecc. per poi essere assemblato e inviato in Occidente. Nei primi mesi di quest’anno le esportazioni cinesi in questi Paesi sono aumentate dell’80% rispetto a cinque anni fa e il medesimo fenomeno sta accadendo per gli investimenti diretti cinesi che hanno superato quelli americani. Paradossalmente, la politica tesa a separare la Cina dagli Stati Uniti sta creando legami finanziari e commerciali sempre più forti tra Pechino e i Paesi del Sud-est asiatico alcuni dei quali sono alleati degli americani. Questa politica di Pechino è simile a quella condotta nei confronti del cosiddetto «Sud Globale» con l’aggiunta dei Paesi africani nel caso di grandi investimenti infrastrutturali. Ora la Cina deve superare grandi difficoltà economica dovute in primis allo scoppio dell’enorme bolla nel mercato immobiliare, ma questa non ha impedito, stando agli ultimi dati, una forte ripresa dei consumi e della produzione industriale. Inoltre le speranze di una crisi profonda della Cina si scontrano con la realtà che anche gli Stati Uniti e la Corea del Sud hanno conosciuto nella loro storia gravi crisi, che hanno interrotto solo temporaneamente la loro traiettoria di crescita, poiché – come la Cina – sono state sostenute da una forte capacità innovativa e tecnologica e da un forte aumento della produttività.
Tra i tre blocchi (Asia, America del Nord ed Europa) che si stanno formando quello che sta peggio è il Vecchio Continente. A tale scopo non bisogna guardare tanto ai dati di breve termine, che sono spesso alterati da fenomeni congiunturali o da eventi particolari, ma alle tendenze di lungo termine. La Cina negli ultimi 50 anni è cresciuta a ritmi mai conosciuti nella storia e ora incalza gli Stati Uniti con un Prodotto interno lordo (PIL) che si aggira attorno ai 23 mila miliardi di dollari. Invece l’economia europea che nel 2008 era maggiore di quella americana (16,2 mila miliardi contro 14,7 mila miliardi) ha oggi dimensioni inferiori di un terzo rispetto a quella statunitense (19,8 mila miliardi di dollari contro i 25 mila miliardi degli Stati Uniti). Se da questi dati si esclude l’economia britannica , il PIL americano è maggiore del 50% rispetto a quello europeo. Questo scarto è destinato ad allargarsi nei prossimi anni per molti motivi: è assente nel campo delle nuove tecnologie e ha una struttura industriale energivora che sta già subendo le conseguenze della guerra in Ucraina e che non si può più alimentare con un gas russo venduto a sconto, ma deve rifornirsi grazie al gas liquefatto americano che costa da tre a quattro volte di più. A dimostrazione della perdita di peso del Vecchio Continente, l’Europa domina ancora nella moda e nelle attività legate allo stile di vita, un fenomeno caratteristico delle economie che affrontano un inesorabile declino di potere, di influenza e di ricchezza.
Il contratto d’affitto prevede modalità e tempistiche piuttosto rigide per quanto riguarda il recesso anticipato, con regole che variano a seconda della parte che intende dar disdetta. L’inquilino, considerato la parte debole del contratto, gode infatti di una tutela maggiore del proprietario di casa, che essendo il contraente forte deve muoversi entro binari più rigidi.
In ogni caso entrambi devono rispettare quanto stabilito dal contratto, soprattutto per quanto riguarda la durata della locazione. Naturalmente si vuole così evitare che l’inquilino possa rimanere senza casa da un momento all’altro o che il proprietario di casa rimanga senza la rendita. Per questa ragione, il recesso è consentito soltanto in alcuni casi e comunque sottoposto a un certo periodo di preavviso.
Ma come ci si comporta quando ci sono degli imprevisti o delle urgenze? Per esempio, un improvviso trasferimento di lavoro per l’inquilino o la necessità di utilizzare diversamente l’immobile per il proprietario. Vediamo cosa prevede la legge sulla disdetta immediata dell’affitto.
Disdetta immediata dell’affitto senza preavviso
Il recesso anticipato dal contratto di affitto è già un’eccezione alla regola, riservata a determinati casi particolari e comunque sottoposta alla regola del preavviso per limitare le conseguenze sulle parti. Di conseguenza, anche nei casi più urgenti è sempre obbligatorio il preavviso e l’inadempimento non è esente da conseguenze, in quanto già la possibilità di recesso è la tutela prevista.
Esiste, comunque, una sola ulteriore eccezione: la possibilità di dare la disdetta immediata per l’impossibilità oggettiva di godimento dell’immobile. Se già il recesso è regolamentato rigidamente, la disdetta immediata è ancor più limitata. In particolare, si tratta di una facoltà riservata all’inquilino, che può disdire il contratto senza preavviso quando non può utilizzare propriamente la casa in affitto per ragioni indipendenti dalla sua volontà.
Per esempio, c’è un’impossibilità oggettiva quando l’appartamento non è servito dalle utenze domestiche (ovviamente non per colpa dell’inquilino), è pericolante in modo importante o interessato da forti e continui rumori tali da impedire lo svolgimento delle normali faccende quotidiane.
In questi casi, l’inquilino può immediatamente andare via e recedere dall’affitto, smettendo contestualmente di pagare i canoni concordati. Affinché ciò sia possibile, tuttavia, è fondamentale che la casa sia in tutto e per tutto inutilizzabile e non che il suo godimento sia limitato. In quest’ultimo caso, è comunque possibile il recesso ma si dovrà rispettare il preavviso ordinario di 6 mesi.
Alternative al preavviso nella disdetta del contratto d’affitto
Al di fuori dell’ipotesi spiegata, la disdetta del contratto d’affitto deve essere anticipata da un preavviso minimo di 6 mesi e comunque essere supportata da gravi motivi indipendenti dalla volontà dell’interessato. Non è però necessario che la giusta causa derivi da una colpa dell’altra parte.
Per esempio, è possibile il recesso dalla casa in affitto a causa del vicino rumoroso e così via. Si deve comunque trattare di motivazioni tali da inficiare il godimento del bene, mentre per il proprietario di casa il recesso dipende sostanzialmente dagli inadempienti dall’inquilino (per cui si parla di risoluzione anticipata) e da alcune necessità prioritarie individuate dalla legge e valide in prossimità della scadenza. Per entrambe le parti deve però trattarsi di questioni sopraggiunte al contratto.
L’obbligo di preavviso grava comunque su entrambe le parti, a meno che di comune accordo prevedano altre soluzioni. Per esempio, molti sopperiscono all’obbligo di preavviso con la presentazione di un nuovo inquilino per lo stesso immobile, così da evitare i disagi del locatore. Più raramente, i locatori concedono la disdetta senza preavviso non pretendendo più i pagamenti in via di cortesia, ma non sono assolutamente obbligati a farlo né tanto meno a trovare un accordo.
D’altra parte, per la natura stessa dell’obbligo di preavviso la legge richiede che in quel periodo sia comunque pagato regolarmente il canone d’affitto e non che l’inquilino rimanga nell’immobile. Pertanto, è possibile lasciare l’appartamento dando il preavviso e continuando a pagare l’affitto.
Non bisogna dimenticare, infatti, che il conduttore può ottenere il pagamento dei canoni durante il periodo di preavviso in via giudiziale, eventualmente insieme a un risarcimento. Nei casi di recesso per problemi dell’immobile, ad esempio infiltrazioni dell’acqua o malfunzionamenti degli impianti, insufficienti alla disdetta immediata anche l’inquilino potrebbe aver diritto a un risarcimento per eventuali danni alla salute o comunque al bene in locazione. Ecco perché spesso le parti trovano accordi stragiudiziali, anche se non sono tenute a farlo.
Alternative al preavviso nella disdetta del contratto d’affitto
Al di fuori dell’ipotesi spiegata, la disdetta del contratto d’affitto deve essere anticipata da un preavviso minimo di 6 mesi e comunque essere supportata da gravi motivi indipendenti dalla volontà dell’interessato. Non è però necessario che la giusta causa derivi da una colpa dell’altra parte.
Per esempio, è possibile il recesso dalla casa in affitto a causa del vicino rumoroso e così via. Si deve comunque trattare di motivazioni tali da inficiare il godimento del bene, mentre per il proprietario di casa il recesso dipende sostanzialmente dagli inadempienti dall’inquilino (per cui si parla di risoluzione anticipata) e da alcune necessità prioritarie individuate dalla legge e valide in prossimità della scadenza. Per entrambe le parti deve però trattarsi di questioni sopraggiunte al contratto.
L’obbligo di preavviso grava comunque su entrambe le parti, a meno che di comune accordo prevedano altre soluzioni. Per esempio, molti sopperiscono all’obbligo di preavviso con la presentazione di un nuovo inquilino per lo stesso immobile, così da evitare i disagi del locatore. Più raramente, i locatori concedono la disdetta senza preavviso non pretendendo più i pagamenti in via di cortesia, ma non sono assolutamente obbligati a
farlo né tanto meno a trovare un accordo.
D’altra parte, per la natura stessa dell’obbligo di preavviso la legge richiede che in quel periodo sia comunque pagato regolarmente il canone d’affitto e non che l’inquilino rimanga nell’immobile. Pertanto, è possibile lasciare l’appartamento dando il preavviso e continuando a pagare l’affitto.
Non bisogna dimenticare, infatti, che il conduttore può ottenere il pagamento dei canoni durante il periodo di preavviso in via giudiziale, eventualmente insieme a un risarcimento. Nei casi di recesso per problemi dell’immobile, ad esempio infiltrazioni dell’acqua o malfunzionamenti degli impianti, insufficienti alla disdetta immediata anche l’inquilino potrebbe aver diritto a un risarcimento per eventuali danni alla salute o comunque al bene in locazione. Ecco perché spesso le parti trovano accordi stragiudiziali, anche se non sono tenute a farlo.
Ha ragione Aldo Cazzullo a dire, sul Corriere della sera di ieri, che l’egemonia culturale della destra in rete è assoluta. Anzi nei social l’egemonia culturale, lui dice, è addirittura di “estrema destra”. Sui temi storici, e non solo, sui temi civili, nel linguaggio usato prevale nettamente quell’impronta, che lui stesso definisce “senso comune”. Sono d’accordo, a patto però di aggiungere un paio di cose. La prima è che l’espressione “egemonia culturale” è impropria, perché quell’opinione diffusa non ha alcun potere, è come la voce che si sparge in piazza mentre a Palazzo si pensa, si dice e si decide in modo opposto. E’ senso comune, non ha egemonia. La seconda, direttamente connessa alla prima, è che il potere sulla cultura, sulle idee, sulla mentalità corrente è detenuto da una cappa che si oppone al senso comune, alla realtà e all’esperienza storica. Non volete chiamarla egemonia culturale di sinistra, preferite chiamarla “mondo di sopra” rispetto al “mondo di sotto” del sentire comune? Va bene. Volete aggiungere che di sinistra in senso ideologico e classico c’è poco, trattandosi di un intreccio più complesso di interessi, caste, mafie, influencer, agenti e funzionari di potere che decidono orientamenti e direzioni culturali? Va bene, anzi è più preciso così, ma quel predominio esiste. E lo dimostra proprio la divergenza netta e il tono polemico, a volte esagerato, che assume in rete l’opinione avversa, che non si trova riconosciuta. Anzi, la vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni politiche è anche il frutto di quella “ribellione delle masse”, in rete, nei social e nella vita quotidiana, a quel potere assoluto. In che consiste l’egemonia sulla cultura da parte di quella “cappa”? Consiste nell’orientamento generale impresso ai mass media, alle istituzioni e nelle grandi agenzie pubbliche sui temi sensibili, storici e civili. Consiste nel prevalere di una narrazione con i suoi ingredienti d’obbligo (in tema di storia, società, migranti, sessi e omosessi, emergenze varie) a tutti i livelli: dal cinema al teatro, dalla tv alla pubblicità, dalle accademie ai grandi giornali, dalle istituzioni ai ruoli di potere. Consiste nell’intoccabilità degli assetti preesistenti perché ciò che fu deciso, per esempio, dal Ministro Franceschini fu deciso dal Fato, da Dio, dalla Scienza Infusa; non può essere toccato. Quel che decidono invece i governi e le amministrazioni di destra è sempre arbitrario, deplorevole, illegittimo, schifoso. Guai a chi tocca il direttore del Museo egizio, guai a chi non caccia il direttore del Museo fiorentino, perché nel frattempo si è schierato con la destra. Guai a chi vuol rimuovere il monopolio dell’Anpi nelle scuole, ben sapendo che l’Anpi non è più nemmeno l’associazione che raccoglie i partigiani, nel frattempo deceduti, ma una setta ideologica che esercita con intolleranza il servizio d’ordine nella storia; rispetto a cui anche la storia del fascismo scritta da Renzo De Felice è indegna di entrare nelle scuole. L’egemonia sulla cultura consiste nelle campagne a cadenza quotidiana contro chi non è allineato (ieri Vannacci, oggi Foa, e domani chissà) con la richiesta seguente di cacciarlo e il relativo effetto intimidatorio esercitato sugli stessi governanti della destra che corrono a schierarsi sotto l’ombrello protettivo della Cappa e a prendere le distanze dal mostro in oggetto. E mille altri sono i tabù, i casi, le denunce, le soffiate che confermano questa dominazione. Perché il tema culturale è diventato così importante, si sono resi conto che è decisivo, centrale? No, signori, non sopravvalutate gli attori. Il fatto è che la politica non può decidere quasi nulla, è bacchettata da misure, tassi, spread e altre misure, deve accucciarsi e allinearsi a livello internazionale, militare, economico, strategico, altrimenti va a casa, e in fretta. Allora l’unico ambito in cui può dare l’impressione che qualcosa stia cambiando e che loro sono rimasti coerenti e “fedeli” ai valori e ai voleri della gente, è agitare un tema pseudo-ideologico, spostare una casella, intitolare una via, cambiare un profilo, riusare uno slogan. Così la cultura diventa un risarcimento simbolico per sceneggiare le differenze e per non dare l’idea che il paesaggio sia omogeneo e i soggetti intercambiabili. Ora, posso dar ragione a Cazzullo che ritiene questo ribollire social spesso scomposto e sgangherato, a volte alimentato da dicerie infondate o non rigorosamente verificate. E posso perfino capire che il governo per sopravvivere, per non fare muro contro muro, tenti mediazioni, frenate e rinvii. Non ha strategie lungimiranti, non ha classi dirigenti, così procede a zig zag. E’ comprensibile, poteri cristallizzati da decenni non si cambiano in pochi mesi con pochi ranghi e poche idee. Ma la sostanza del discorso resta: quando la scena pubblica è dominata da quel senso unico, quando non si riconosce spazio e legittimità a chi esprime, anche ragionando e fondandosi su fonti serie, opinioni diverse da quelle del mainstream, allora è naturale, è fisiologico, che poi esploda in rete, nei social, ossia negli unici spazi non (ancora del tutto) controllati, quella divergenza con quei toni aspri. E che così compressa, così abbandonata alla prateria del web, poi cresca selvatica. L’unico modo per evitare quella contrapposizione così netta tra senso comune e mainstream calato dall’alto, è riconoscere un fondamento al sentire comune, riconoscere cittadinanza alle idee diverse, purché siano degnamente argomentate. Ma degnamente non vuol dire che debbono coincidere con le opinioni dominanti, ma che restino comunque differenti e divergenti ma in modo serio. Un diverso ascolto, una diversa apertura verso chi ha opinioni contrarie gioverebbe non solo alla società, svelenirebbe il clima ma riuscirebbe anche a sgonfiare il potenziale di rabbia che poi monta davanti al disprezzo altrui e alla richiesta permanente di censura verso chi dissente. Lo dicevo già anni fa: se volete smontare le post-verità mettete da parte le pre-falsità, ovvero i pregiudizi falsi prefabbricati a senso unico che spacciate sui temi storici, civili, culturali e sociali. Ogni critica preveda anche un’autocritica. Vale per tutti.
Nel Qs Rankings Europe 2024 solo 4 atenei italiani sono nella top 100: Politecnico di Milano è 47esimo, e poi Sapienza, Bologna e Padova. Per produttività scientifica, 25 atenei italiani nella top 100
Il Politecnico di Milano si conferma il migliore ateneo Italiano nella nuova classifica europea di QS Quacquarelli Symonds, esperti mondiali della formazione universitaria e manageriale. L’istituzione milanese si piazza al 47esimo posto nel ranking generale ed e’ l’unico ateneo italiano a figurare tra le prime cinquanta, mentre la Sapienza di Roma, e le università di Bologna e di Padova si posizionano tra le prime cento.
Altri atenei italiani si sono distinti in ciascuno dei dodici indicatori della classifica. Ca’ Foscari – Università di Venezia rappresenta l’apice nazionale per il numero di studenti in scambio in uscita. L’Università Cattolica del Sacro Cuore segue al sesto posto in questa categoria, rappresentando il secondo miglior risultato italiano.
Il Politecnico di Bari si mette in luce per la produttività dei suoi ricercatori. La Sapienza è particolarmente apprezzata nella comunità accademica internazionale, oltre ad avere una vasta rete di ricerca globale e ottime prospettive occupazionali per i suoi laureati. Il Politecnico di Milano si distingue come l’ateneo italiano più apprezzato dai datori di lavoro internazionali e come punto di riferimento per attrarre studenti internazionali in scambio.
L’Università Vita-Salute San Raffaele brilla per il suo rapporto ottimale tra docenti e studenti e per il notevole impatto della sua ricerca, dominando a livello nazionale per le citazioni per pubblicazione scientifica. La Libera Università di Bozen-Bolzano si fa notare per l’alta proporzione di docenti internazionali, mentre l’Università di Padova eccelle nell’ambito della sostenibilità.
Nell’indicatore relativo alla produttività dei ricercatori, l’Italia brilla occupando ben 25 posizioni tra i primi cento posti, superando nettamente Francia e Germania, che registrano 13 atenei ciascuno in questa fascia. Anche considerando le prime 200 università secondo questo criterio, l’Italia si conferma leader con 42 atenei classificati, davanti al Regno Unito (39) e alla Germania (22).
A livello nazionale, sono i tre Politecnici – Bari, Torino e Milano – a spiccare, seguiti dall’Università di Napoli Federico II e dall’Università di Firenze, che completano la top 5 italiana. Anche se la produttività della ricerca italiana rappresenta un punto di forza, c’è margine di miglioramento in termini di impatto e rilevanza della ricerca prodotta. Per questo indicatore, solo l’Università Vita-Salute San Raffaele rientra tra le prime cento in Europa.
L’Università di Milano-Bicocca si colloca tra le prime 150, mentre l’Università di Trento registra il terzo miglior punteggio a livello nazionale. Per quanto riguarda l’indicatore di Sostenibilità, che valuta l’impatto ambientale e sociale delle università, nonché la ricerca e l’insegnamento in questo ambito cruciale per formare cittadini e futuri leader consapevoli dal punto di vista etico, ecologico e sociale, l’Italia si posiziona bene.
L’Università di Padova guida la classifica italiana per questo indicatore fondamentale, seguita dall’Università di Milano e dalla Sapienza. Anche l’Università di Torino si colloca tra le prime 50 a livello europeo. Inoltre, ben 20 università italiane rientrano tra le prime 200 in Europa secondo questo criterio.
Delle università italiane, sedici si collocano tra le prime 200 in Europa per la reputazione guadagnata all’interno della comunità accademica internazionale, come evidenziato da un sondaggio che ha raccolto risposte da oltre 144.000 partecipanti. La Sapienza e l’Università di Bologna figurano tra le prime 20, apprezzate da accademici di tutto il mondo. Il Politecnico di Milano si posiziona tra le prime 30, mentre l’Università di Padova è tra le prime 50 a livello europeo.
Questa storia è probabilmente ignorata da larga parte del pubblico italiano. Sicuramente non è mai stata riportata dai media mainstream italiani né tantomeno da quelli europei perché contiene delle verità così sconvolgenti e atroci da disturbare coloro che siedono nei luoghi dove viene detenuto il potere politico e finanziario.
È la storia di Natacha Jaitt. Natacha era una prostituta argentina che negli anni scorsi aveva guadagnato una certa notorietà nei media alternativi del suo Paese per le clamorose rivelazioni da lei fatte.
Natacha Jaitt aveva denunciato un traffico di esseri umani che vedeva coinvolti diversi politici argentini e di altri Paesi. Un traffico la cui rete toccava diversi membri di squadre di calcio argentine accusate dalla donna di approfittare dei bambini che venivano dalle zone più povere dell’Argentina e che cadevano vittime degli orchi.
Orchi che però avevano e hanno protezioni nei luoghi sulla carta più impensabili. La donna aveva denunciato in particolar modo un personaggio il cui nome probabilmente non dirà molto ai lettori italiani ma che in Argentina gode di una certa notorietà.
Si tratta di Gustavo Vera. Se si scrive il suo nome su qualsiasi motore di ricerca si troveranno diverse sue foto assieme a Jorge Mario Bergoglio.
Gustavo Vera è un politico amico stretto del pontefice già negli anni nei quali il papa era ancora arcivescovo di Buenos Aires.
Una nomina che Bergoglio ha ricevuto non senza qualche controversia perché come ha rivelato nel suo libro “Il Papa dittatore” lo scrittore Marcantonio Colonna, lo pseudonimo adottato dallo storico di origini francesi Henry Sire, erano in diversi nella Chiesa ad avere perplessità sul fatto che Bergoglio potesse ricoprire quella posizione.
Persino nei Gesuiti c’erano non poche resistenze da parte dei vertici come l’olandese Peter Hans Kolvenbach che negli anni 90 era il Superiore Generale della Compagnia di Gesù.
Kolvenbach giudicava inadeguato Bergoglio per quella posizione soprattutto per la sua spregiudicatezza e le sue capacità manipolatorie che rendevano l’allora vescovo più portato per gli intrighi politici che per l’evangelizzazione delle anime.
A Roma però ci sono forze oscure che proteggeranno Bergoglio per tutto il corso della sua carriera fino ad aprirgli la porta del soglio sul quale hanno seduto i vicari di Cristo nel corso degli ultimi duemila anni.
Forze oscure che governano il Vaticano dalla morte di Pio XII quando il suo successore, Giovanni XXIII, al secolo Angelo Roncalli, pontefice considerato appartenente alla massoneria francese, decise di inaugurare un Concilio che cambia completamente la dottrina sulla quale è stata fondata la Chiesa Cattolica.
La Chiesa post-conciliare è una Chiesa modernista e liberale che ha fatto suo lo spirito ateo e laicista di quel mondo moderno che invece avrebbe dovuto combattere e arrestare.
Quando Bergoglio inizia a salire i gradini della gerarchia della Chiesa, l’infezione della massoneria ha ormai invaso ovunque i palazzi vaticani.
E questa infezione ha portato diversi preti, vescovi e cardinali ad essere direttamente coinvolti nei traffici più sordidi.
Natacha Jaitt aveva denunciato come Gustavo Vera, un “filantropo” vicinissimo al pontefice, avesse un ruolo importante a sua volta in questa rete pedofila.
La donna aveva dichiarato in più di un’occasione che Vera utilizzava la sua fondazione “La Alameda” per trafficare donne e bambini invece di toglierli dalla strada come avrebbe dovuto fare.
Reshetnyak rilasciò negli anni passati un’intervista proprio a Natacha Jaitt nella quale diceva che il politico argentino gestiva una rete pedofila che aveva diramazioni in diversi Paesi del mondo quali Uruguay, Cile, Brasile, Perù, Colombia, Stati Uniti e Italia.
Il giornalista ucraino in questa intervista fa delle rivelazioni sconvolgenti perché accusa il pontefice di aver autorizzato il finanziamento della rete di Vera che avrebbe perpetrato i suoi traffici nei Paesi citati prima anche con la complicità della nota agenzia di intelligence americana, la CIA.
Reshetnyak inoltre dichiarò in quell’occasione che il presidente della fondazione in questione è coinvolto nelle peggiori attività criminali quali sfruttamento della prostituzione e traffico di droga.
La fondazione, secondo quanto riferito dal giornalista, non sarebbe altro quindi che una copertura solo apparentemente umanitaria dietro la quale vengono perpetrati tutti questi traffici.
Nell’intervista poi Reshetnyak afferma anche che ci sono diversi testimoni che hanno accusato Vera dei suoi traffici e alcuni di questi sono stati uccisi come accaduto a Lucia Perez, una ragazza di 16 anni assassinata nel 2016.
Bergoglio non ha mai preso le distanze dal suo stretto amico e Vera ancora oggi non è stato portato in tribunale a rispondere di tali accuse.
Natacha Jaitt era pronta a denunciarlo pubblicamente in una corte di Giustizia nel 2019. Non fece però in tempo a testimoniare. La donna fu trovata morta il 23 febbraio del 2019 in una stanza dell’albergo Xanadu nella città di Benavidez.
Ancora oggi non si conoscono le cause esatte della morte anche se apparentemente risulta essere stata eseguita un’autopsia sul corpo di Natacha i cui esiti non sono stati resi noti.
Si sa soltanto che nelle sue narici è stata trovata cocaina ma i suoi famigliari hanno smentito che ne facesse uso a causa dei suoi problemi di salute.
Le telecamere dell’albergo dove è stata trovata morta la donna mostrano tre persone che si allontanano dalla stanza e che si disfano di un pacchetto dove presumibilmente c’erano gli stupefacenti trovati nel corpo della vittima.
Prima di morire in circostanze ancora tutte da chiarire, Natacha Jaitt aveva scritto un tweet nel quale affermava chiaramente che non aveva nessuna tendenza suicida e che se fosse stata trovata morta per un apparente suicidio, avrebbe voluto dire che non era stata lei a togliersi la vita
Il tweet di Natacha Jaitt nel quale dichiarava di non avere nessuna tendenza suicida
La Jaitt aveva ricevuto ripetute minacce di morte da parte probabilmente dei potenti argentini e non che stava denunciando assieme al coraggioso giornalista ucraino Artyom Reshetnyak.
Le sorti di quest’ultimo non sono ad oggi ancora note. Secondo i documentari che hanno riportato la sua storia e l’intervista che rilasciò a Natacha Jaitt risulta scomparso e non si sa nemmeno se sia effettivamente ancora in vita oppure no.
Proprio in quell’intervista Reshetnyak stesso affermò che i rappresentanti della autorità argentine quando fecero visita alla sua abitazione lo minacciarono esplicitamente di gettarlo “dentro un fosso” se non avesse smesso di parlare di Gustavo Vera e delle sue “attività”.
Vera è un uomo molto potente che gode di protezioni non solo in Argentina ma soprattutto tra le Mura Vaticane laddove il suo fraterno amico Bergoglio risultava chiamarlo almeno una volta a settimana per parlare con lui.
I precedenti di Bergoglio per coprire i pedofili nella Chiesa
Non è questa la prima volta che il pontefice viene accusato di coprire pedofili e uomini di Chiesa indegni di indossare l’abito talare.
Ai tempi della sua permanenza nell’arcidiocesi di Buenos Aires, nell’istituto Provolo per bambini sordi a Mendoza erano stati trasferiti dei sacerdoti che già a Verona, in un’altra sede dell’omonimo istituto, si erano macchiati di gravi abusi sessuali nei confronti dei bambini affetti appunto da sordità e mutismo.
Il Vaticano negli anni 80 sotto il pontificato di Giovanni Paolo II quando emersero le notizie di queste violenze decise di non procedere alla riduzione in stato laicale di questi preti ma li allontanò.
Bergoglio sapeva cosa stava accadendo nell’istituto Provolo e non fece nulla per mettere fine a questa indicibile serie di nefandezze contro quei bambini per giunta affetti da gravi disabilità fisiche.
Lo stesso copione si verificò per ciò che riguarda don Julio Grassi. Don Grassi gestiva il centro “Bambini felici” per dare accoglienza e rifugio a bambini senza casa.
È in questo centro che il sacerdote argentino abusò di un bambino. Don Julio finì a processo alla fine degli anni 2000e Bergoglio in questa occasione quando era ancora arcivescovo di Buenos Aires nulla fece per prendere le distanze e condannare il prete pedofilo.
Decise invece di commissionare uno studio nel quale gettava fango e discredito sugli accusatori di don Grassi nonostante questi sia stato poi riconosciuto colpevole e condannato a 15 anni di carcere per i suoi abusi contro i bambini.
In ogni singola occasione, sia quando guidava la diocesi di Buenos Aires sia quando entrava nelle stanze di Santa Marta in Vaticano, Bergoglio non agiva mai per smascherare ed espellere quei sacerdoti che si macchiavano di così infami delitti.
Faceva del tutto per assicurare loro protezione e assistenza legale. La lobby pedofila è difatti estremamente potente e radicata in ogni parte del mondo.
Essa gode della partecipazione di uomini insospettabili che siedono ai più alti vertici delle istituzioni.
Kubrick in quell’occasione disse che il segreto sul quale si fonda il potere di questa élite è il ricatto. Ognuno ricatta l’altro di esporre la sua partecipazione agli abusi pedofili qualora riveli al mondo esterno chi sono coloro che fanno parte di questa rete internazionale.
Sono molti dei nomi che sono emersi negli anni passati quando fu arrestato il pedofilo e magnate americano Jeffrey Epstein.
Sono presidenti degli Stati Uniti, banchieri, attori e politici. Sono coloro che Epstein portava nella sua isola laddove si consumavano altri abusi che poi venivano registrati da varie telecamere per tenere così in vita il meccanismo ricattatorio del quale parlava Kubrick.
E sono gli stessi personaggi di cui fa menzione un’altra vittima del traffico di esseri umani, Cathy O’Brien, nel suo celebre libro-denuncia intitolato “Trasformazioni d’America”.
Cathy O’Brien fu venduta già nei primi anni della sua infanzia a questa rete di trafficanti di esseri umani nella quale, secondo quanto rivelato dalla stessa O’Brien, ci sarebbero stati personaggi del calibro del presidente George H. Bush, padre di George W., e Pierre Trudeau, ex primo ministro canadese e padre dell’attuale PM canadese, Justin.
È questa rete che Natacha Jaitt e Artyom Reshetnyak denunciarono ed è questa rete che non viene mai menzionata dai media mainstream.
Sulla élite pedofila c’è una spessa coltre di silenzio che viene calata per proteggere i veri responsabili della pedofilia internazionale.
È sotto questa coltre che c’è quella inconfessabile verità che non viene mai raccontata al pubblico italiano e mondiale.
I predatori dei bambini si nascondono negli uffici e nei luoghi dove risiede il vero potere. Quello dei vari circoli del mondialismo e della massoneria di cui i media non raccontano mai nulla.