Plan 75: un programma di Stato per un’eutanasia legalizzata. Una distopia ambientata in Giappone capace di mostrare il lato disumano della società nella quale già viviamo, dove gli “improduttivi” diventano un peso insostenibile. Il film della Hayakawa delinea dei ritratti umani immergendoci nell’assurdità di un intero sistema sociale che ha perso ogni contatto con la vita. Da vedere.
L’immagine sfuocata e fissa di un ambiente interno. Si intuiscono degli oggetti a terra. Poi una figura si muove sul fondo e fa cadere qualcosa. Un’eco riempie lo spazio che sembra disabitato. Ci accompagna la dolce musica della Sonata per pianoforte n. 5 in sol maggiore, di Mozart.
Così si apre Plan 75, il lungometraggio di esordio della regista giapponese Chie Hayakawa. Due minuti che trasmettono allo spettatore un sentimento e una percezione dissonanti. La musica continua e la scena si mette a fuoco. Si scopre così che un giovane aveva fatto irruzione in un centro per anziani compiendo una strage. Il suo gesto estremo vuole richiamare l’attenzione sua una questione sociale che sta creando tensioni in tutto il Paese: l’invecchiamento della popolazione e la denatalità hanno portato ad un carico fiscale eccessivo per le nuove generazioni. Gli anziani sono così un peso che ricade prima di tutto sui giovani.
A fronte di questo problema il Governo decide di varare un piano denominato appunto Plan 75 che prevede la possibilità di accompagnamento alla morte per tutti i cittadini che abbiano compiuto 75 anni e che ne vogliano fare richiesta. Ogni cittadino avrà un impiegato che lo assiste e lo guida fino al giorno in cui viene praticata l’eutanasia e nel frattempo riceverà anche una somma di denaro da spendere liberamente.
«Le manifestazioni di odio verso le persone anziane del Paese hanno portato la comunità a richiedere più volte un intervento drastico per affrontare questo problema divenuto sempre più critico», recita la voce di un giornalista alla radio.
Distopia? Certamente il film della Hayakawa si presenta in superficie come tale, ma l’ambientazione è quella del Giappone di oggi. E in effetti lo spunto nasce proprio dalla realtà che il Paese del Sol Levante sta già vivendo con una popolazione sempre più anziana e una tensione fra le generazioni che rischia di crescere.
Con uno stile che ricerca la semplicità ma sa anche essere evocativo, in cui si notano i riferimenti ad un certo cinema autoriale giapponese con autori come Kore’eda e Hamaguchi, Plan 75 non è un film a tesi, per fortuna, altrimenti non sarebbe arte e non saremmo qui a parlarvene. Certo in alcuni momenti si eccede nella chiarezza espositiva del tema fondante, come ad esempio all’inizio del film in cui con troppo anticipo, a nostro avviso, viene esplicitato il programma di eutanasia promosso dal Governo. Ma l’intento della regista, brillantemente raggiunto, è quello di delineare dei ritratti umani, dei percorsi e degli incontri che cambieranno le vite dei personaggi.
Plan 75 segue infatti più storie che si incrociano, si sfiorano dentro questo programma di morte ideato dallo Stato. Conosciamo così la signora Michi, costretta a lavorare come tutti gli anziani perché priva di pensione, e che alla fine, non trovando nessun impiego dopo l’ultimo licenziamento, decide di aderire al progetto. Qui trova ad assisterla una giovane impiegata che, contravvenendo alle regole, accetta di spendere del tempo con lei, donandole un po’ di calore umano. Poi c’è Hiromu anch’egli impiegato per il Plan 75 che scopre che uno dei tanti anziani che hanno chiamato per aderire al piano è un suo zio che non vedeva da anni. Infine c’è l’infermiera Maria, giovane madre filippina che accetta questo nuovo lavoro stando “dietro le quinte”, a smistare gli effetti personali dei defunti. Un lavoro preso per racimolare i soldi necessari per pagare una delicata operazione a cui deve essere sottoposta la figlioletta.
Varie umanità che si muovono in una realtà metropolitana fredda e insensibile. Non c’è compassione, non c’è relazione. Anche scenograficamente noi passiamo dalle modeste e spoglie case degli anziani che decidono di ricorrere all’eutanasia, all’asettica e moderna architettura degli uffici. Tutto comunica distanza.
L’opera prima della Hayakawa non è però, come superficialmente si potrebbe intendere, focalizzata sull’eutanasia, ma sulla disumanizzazione del vivere, delle relazioni, dell’impianto sociale stesso, sulla perdita del senso dell’esistenza che ha da sostanziarsi anche nel lavoro e nella struttura della società. Perché tutto questo è la premessa all’eutanasia. Premessa che è assolutamente applicabile anche alla nostra realtà, ma che vogliamo sbrigativamente archiviare mettendoci in pace la coscienza opponendoci semplicemente all’ideologia della “dolce morte”, ma senza mettere in discussione tutto il resto. Soprattutto senza mettere in discussione noi stessi.
Se a dominare è la produttività – anche quella intellettuale, ci abbiamo mai pensato? – nel momento in cui per la società veniamo ritenuti “improduttivi”, e non solo in quanto anziani, allora la nostra vita perde di senso, ancor più, perde di dignità. Si è, perché si produce.
Il film mostra il paradosso per cui gli anziani sono obbligati a lavorare perché non esiste più un sistema pensionistico, ma allo stesso tempo le aziende non li vogliono assumere o ad un certo punto li licenziano perché se uno di loro dovesse morire sul lavoro l’immagine aziendale ne sarebbe danneggiata. In una scena, terribile e potente per la sua “normalità”, alcuni uomini mostrano ad Hiromu alcuni modelli di braccioli da applicare alle panchine per evitare che gli anziani senza tetto possano dormirci sopra.
Agghiacciante, perché raccontato con sottigliezza dalla regista, è proprio il fatto che mentre gli impiegati del piano governativo accompagnano le persone che vi hanno aderito e ripetono loro più volte che essi sono liberi in qualsiasi momento di abbandonare il programma, la società non offre più alcun sostegno agli anziani. Si è accompagnati, se si vuole, a morire, ma non se si vuole continuare a vivere.
Certamente il film va inserito nel contesto e nella cultura del Giappone, ma saremmo ipocriti se non vedessimo il parallelo con la nostra, con lo sgretolamento sempre più accelerato del sistema pubblico e ancor più e prima, della perdita del senso di comunità, del senso di lavorare e operare in vista di un bene comune, di un bene più grande. Perché dove tutto è solo orizzontalità, ridotta la dimensione spirituale a qualcosa di interiore o al più di moralistico, le vite sono numeri, tutto è numero. Qualcuno, già un secolo fa parlava della nostra era “antimetafisica” per eccellenza come il Regno della Quantità. Ecco, noi ora viviamo l’estremizzazione ultima di questo sovvertimento, ma facciamo di tutto per non accorgercene.
E dove tutto è solo numero finalizzato alla produttività, non solo le persone, ma anche le cose perdono il loro valore. Le scene in cui vediamo Maria che smista con un collega gli oggetti appartenuti ai defunti – borse, orologi, gioielli, abiti – trasmettono morte, ancora più di tutto il resto del film. La vita si spegne, diventa muta, e muti sono anche gli oggetti. Non c‘è più nessuna storia che emerge da essi, perché non c’è più spazio per la memoria. Tutto scorre nella catena di montaggio di questa società disumana. Una catena di oblio che divora tutti, prima o poi.
Al contrario la vita è proprio questo, è linguaggio che si dipana anche dalle cose a cui siamo stati legati, perché dietro un oggetto c’è sempre un legame, c’è una storia. Se la Vita è qualcosa di meraviglioso e misterioso è perché tutto parla in essa. La Storia parla, le anime parlano, gli oggetti parlano.Prima di discutere sull’eutanasia e su altre mostruosità partorite da questo mondo deforme, dovremmo prima interrogarci su quanto ci siamo tutti allontanati dalla fonte della Vita, quanto essa sia al più divenuta una semplice ideologia con la quale mettiamo a tacere la nostra coscienza.
Senza svelare il finale del film, dobbiamo però dire che la Hayakawa ci congeda con delle scene piene di luce e di speranza. Perché la luce è più forte delle tenebre, e sa illuminare anche quelle zone d’ombra che vorremmo tenere nascoste. C’è tanto bisogno di luce nella nostra società morente, ma dobbiamo prima puntarla su di noi, dentro di noi, e non cadere nel solito rischio di voler solo togliere il buio dalle vite degli altri. E questa luce allora ci farà riscoprire come tutto ci parla, eravamo solo noi che avevamo chiuso gli occhi e le orecchie.
NOTA: Le immagini riportate nell’articolo sono di proprietà di Tucker Film